Roma, Febbraio 1951

Un buon mese per le scene romane di prosa. Buono perché ha mostrato — grazie a due eccellenti spettacoli di cui si parla nel seguito di questa nota* — quello che potrebbe essere il teatro italiano, se non fosse (tranne un altro paio di compagnie che tutti conoscono) quello che è: disorganizzato, costretto a vivere alla giornata, formato di compagnie girovaghe poggiate sul prestigio di uno o due attori, poche prove e quindi commedie recitate alla come viene, pochi mezzi e quindi spettacoli mai allestiti come si deve, nessuna formazione stabile e di complesso che non sia d’un « piccolo teatro », il quale per il fatto di essere « piccolo » non può sostituire il « grande », eccetera. Donde quella sfiducia nelle sorti del teatro italiano, che è ormai un male cronico. In siffatto marasma, i due spettacoli in questione sono stati un respiro a pieni polmoni, una apertura di credito per un avvenire migliore.

“Avevamo pagato tutti i debiti”

Arthur Miller è uno di quegli scrittori americani che rivolgono la loro opera a una denuncia sistematica dei mali morali, sociali, economici, del sistema di vita che la civiltà del dollaro ha stabilito nel loro paese, reagendo contro l’ottimismo energetico, divenuto quasi una religione nazionale, con la dimostrazione dello spaventoso deserto fatto nella vita umana da una civiltà che ha per solo ideale la conquista del benessere materiale dell’individuo.

Arthur Miller era già noto in Italia per un dramma, Tutti miei figli che, rappresentato in America nel 1947, nello stesso anno fu portato sulle nostre scene dalla Compagnia di Evi Maltagliati. Un altro suo dramma, Morte di un commesso viaggiatore, che è del 1949, è stato rappresentato a Roma dalla Compagnia Morelli-Stoppa diretta da Luchino Visconti. Ambedue i lavori sono impostati su un dramma familiare che pone i figli contro il padre, in uno strano parallelismo di situazioni per cui, così nel primo come nel secondo, la madre è l’umanissimo tramite tra i contendenti, e soccombente nel conflitto è il padre che si uccide. Ma, in Tutti miei figli, che era un dramma del dopoguerra, il padre vi stava come esponente della civiltà del dollaro — un industriale arricchitosi disonestamente con forniture di guerra — mentre i figli vi rappresentavano la più giovane generazione dei combattenti, ritrovatisi al loro ritorno in una vera giungla dopo aver creduto che il loro sacrificio sarebbe valso a migliorare il mondo. Invece in Morte di un commesso viaggiatore il padre è un succube della civiltà dell’arricchimento perché, avendo educato i figli alla conquista del filone d’oro con una smodata fiducia nelle loro forze, si ritrova ad aver fatto dei figli due falliti, inetti a vivere in una società dove « la lotta per la vita è diventata una cosa da impazzire ».

Tema assai più vasto, quello del secondo lavoro, il quale supera la contingenza d’un particolare momento della vita americana, e ne investe tutto il fondo costituito da una mentalità bottegaia, e da una educazione tutta tesa al prestigio fisico e al culto dell’azione per la conquista della ricchezza. E, se nella prima commedia era posta in causa solo una parte della società americana, in questa seconda la critica è rivolta a tutto un sistema di vita che crea tragiche illusioni, mettendo i più deboli in condizione di dover essere spietatamente eliminati da una società senz’anima, d’un egoismo feroce. E bisogna dire che il Miller ha trattato questo tema più impegnativo con un’assai maggiore concretezza drammatica, e con risultati artistici di gran lunga più felici. Infatti, mentre in Tutti miei figli il meccanismo ideologico era scoperto, e i toni d’un intimismo alla Cecov mal s’inquadravano in una teatralità alla Bernstein, in Morte di un commesso viaggiatore il dramma si sviluppa tutto nell’ambito dei sentimenti umani, con un’omogeneità d’espressione e con un’arditezza di tecnica che danno alla commedia un pregio molto vicino a quello della bellezza.

L’azione, che si svolge in una casetta ad un piano di Brooklin rimasta soffocata tra altissimi e angosciosi casamenti (e la scena del Polidori ha reso così vivo il senso di quell’angoscia, da essere stata calorosamente applaudita al primo levarsi del velario), sarebbe estremamente semplice, perché si svolge nel giro di ventiquattr’ore, se non tornassero nella mente del protagonista i ricordi degli episodi della sua vita che prepararono quel dramma: episodi che con un inserimento del passato nel presente, assumono vita scenica. Questo procedimento, comune alla narrativa moderna nel monologo interiore, presentava sul teatro difficili problemi di regìa, che Luchino Visconti ha risolto con genialità e maestria.

Il protagonista è Willy Loman, un più che sessantenne il quale da trentacinque anni viaggia gli Stati dell’Unione in auto acquistate a rate, come a rate è acquistata la casetta, per vendere le merci della ditta Wagner affidandosi alla simpatia e alla dignità della propria persona. Armato solo di questo prestigio personale in cui ha una cieca fiducia, in realtà così indifeso, Loman s’illude di imporsi a un mondo in cui — dice un personaggio della commedia — « si fa colpo solo col portafoglio ». Ma, ormai vecchio e sfinito, seppure ancora disposto ad illudersi, quando va dal principale a chiedergli un servizio più sedentario, ne viene licenziato brutalmente, buttato via come uno straccio.

Né i due figli, Biff e Gio, che egli crede d’aver cresciuto decisi, sorridenti, pronti a tutto, sono riusciti tali da poter conseguire nella vita quel successo che è mancato a lui, sempre così stretto dalle scadenze d’un guadagno appena sufficiente ai bisogni. Biff, che trascurò gli studi per primeggiare nello sport, e li troncò il giorno in cui sorprese il padre con una sgualdrinella in un albergo di Boston, s’accorse a trent’anni di valer « meno d’una cicca », d’essere uno spostato in quella « città di forsennati » che è New York. Gio è poi un commesso a pochi dollari la settimana, un vanesio dongiovanni che pianta il padre per correre dietro a delle ragazze proprio la sera in cui i due figli hanno invitato il padre a cena in un ristorante per risollevarlo da una depressione che gli aveva già fatto meditare il suicidio.

Quella sera scoppia il dramma famigliare, già maturato attraverso continui litigi in cui la madre aveva finito per mettersi dalla parte del marito contro i figli ingrati ed egoisti. Tornato a casa affranto e irreparabilmente deluso, Loman da un desolato sfogo di Biff, capisce che la ribellione di lui non è mossa da odio ma dal tormento della propria condizione di buono a nulla, e sente insieme quanto grande è la sua responsabilità nel fallimento dei figli. Allora, montato sull’auto appena finita di pagare, va a farsi sfracellare dal traffico della città mostruosa; e sulla sua tomba di povera vittima della civiltà meccanica, la vedova non sa che ripetere: « Avevamo pagato tutti i debiti! ».

Questo dramma, radicato nei sentimenti più profondi dell’animo umano ed espresso dal Miller con un linguaggio d’una realistica semplicità ed immediatezza ottimamente resa dalla traduzione di Gerardo Guerrieri, ha avuto una esecuzione che ci è sembrata insuperabile sotto ogni aspetto, sia nell’angosciosa intensità che gli ha dato la regìa di Luchino Visconti sia nella commovente umanità della recitazione dei quattro maggiori interpreti, sia nella perfetta cornice che ad essi hanno fatto tutti gli altri attori. Paolo Stoppa, che ci si era abituati a conoscere nei toni del comico, in questa difficilissima, addirittura schiacciante parte drammatica, si è rivelato un grande, un grandissimo attore. Rina Morelli, con quella sua piccola persona che in certi momenti sembra riempire tutta la scena, ha avuto di quegli accenti sofferti che prendono alla gola. I due figli, Giorgio De Lullo e Marcello Mastroianni, sono stati ammirevoli, tanto che il De Lullo s’è preso un interminabile applauso a scena aperta. Tutti bravissimi, intorno agli interpreti principali, i secondari: la Carabella, il Verna, il Pisu, il Danova, l’Interlenghi, la Sinagra.

Arnaldo Frateili

*L’altro spettacolo è Detective Story di Sidney Kingsley, Teatro Valle, 31 gennaio 1951 – Compagnia del Teatro nazionale, regia di Luigi Squarzina.