Ma lo spettacolo che aveva già avuto un grande successo nelle recite di assaggio, è stato rimandato a fine mese per un attacco di appendicite che ha colto all’improvviso Romy Schneider. La giovane attrice viennese sarà, a parere di molti, la vera rivelazione di “Peccato che fosse una sgualdrina”
Prima parte di questo articolo qui: Monsieur Visconti à Paris
Lo spettacolo è proibito in Italia
“Peccato che fosse una sgualdrina” è la cupa vicenda di un amore incestuoso fra fratello e sorella, ambientata in una Parma fantasiosa e rinascimentale. «Il Secolo degli elisabettiani — ha scritto Ippolito Taine — si può paragonare a una caverna di leoni. Il teatro ce ne rimanda i ruggiti. È l’epoca in cui tutte le facoltà e gli istinti si levano insieme, come nell’adolescenza». Questo teatro violento, diretto e privo di misura deve essere molto congeniale all’estro di Luchino Visconti . «Infatti — ci conferma il regista — ho sempre avuto una gran voglia di mettere in scena il dramma di Ford. In Italia, naturalmente, era impossibile. Lo fece Giorgio Albertazzi a Firenze, tanti anni fa: ma credo che lo proibirono subito. Anche ora, sa, non ce lo lasciano fare. Menotti lo voleva per il festival di Spoleto, la censura ha risposto picche». Insomma, siamo di fronte a una “Arialda” del XVII secolo? Visconti sorride, ma proprio non ha voglia di impegnarsi in una discussione. Vorremmo chiedergli se questa per lui è soltanto una battuta o se corrisponde a una certa sua costante di interessi, Giovanni Testori sì rifà dichiaratamente agli elisabettiani, sia dal punto di vista tecnico che da quello dei contenuti. In “Peccato che fosse una sgualdrina”, come ne “L’Arialda”, il tema è quello di un amore colpevole che sfugge la misura della morale comune e si propone come una sublimazione del rapporto fra due esseri. Solo che in Testori, cattolico, l’amore proibito è soltanto platonico; nell’elisabettiano John Ford, invece, è terribilmente terrestre, carnale. Forse il grande tema di Visconti è quello dell’individuo contro i costumi della società che lo condizionano. È questa la giuntura fra l’individualismo del regista e le sue aspirazioni sociali, fra “Senso” e “Rocco e i suoi fratelli”?
Non è la giornata per fare delle discussioni teoriche, con il telefono che suona in continuazione, i dodici milioni di perdita che prevede l’amministrazione della compagnia, le sessantadue persone che attendono al Théâtre de Paris gli ordini del regista. «Che cosa gli devo dire? — chiede Visconti al portiere che vorrebbe passargli una telefonata del teatro — Dica che la signorina Schneider sta meglio, almeno spero. Non lo so. Non so niente. Fra dieci minuti torno in clinica e non mi muovo più. Che mi cerchino là».
«Peccato che lei non veda. lo spettacolo — riprende — Ma perché non è venuto ieri, con i professori? È stato a vedere qualcos’altro, immagino. Niente di buono? Eh, Parigi non è più quella dei registi del ”’cartel”. Per questo penso che il nostro spettacolo dovrebbe interessare: lo troveranno per lo meno insolito. In Italia siamo ormai abituati a un rigore, a una precisione, a una qualità scenotecnica che qui non è più di moda». Parlando dello spettacolo riesce ancora a infiammarsi: «Ho visto il testo di Ford come un documento di vita di un periodo particolare, il Rinascimento. Naturalmente attraverso la prospettica elisabettiana. Se non si crea la cornice di una certa società, il fatto del dramma è inesplicabile. Ho cercato di far recitare gli attori come allora. Ci sono degli ottimi elementi: Valentine Tessier, Daniel Sorano e molti altri. Li ho fatti recitare fuori dalla scena, attraversare la sala, come ai tempi di Shakespeare. Con molta disinvoltura, con molto colore».
Un’altra telefonata. È qualcuno che racconta a Visconti come Elsa Martinelli, ignara di tutto, stia ancora nelle mani di parrucchieri, sarti e massaggiatori, a prepararsi per la serata. «Non ditele niente», raccomanda ridendo Visconti. Poi si corregge: «Ma no, poverina, avvertitela. È stata tanto gentile. Sono stati tutti così gentili a venire, mi fanno sentire addirittura in imbarazzo».
Un regista processatissimo
«E ora che cosa faccio? — continua, tornando a sedersi — Venti giorni qui non posso stare. Appena sono sicuro che la piccola sta meglio, torno a Roma. Questo fatto mi scombina tutto. Alla fine di marzo dovevo girare un episodio per “Boccaccio ’61”. Prima avevo pensato a “La Gilda del Mac Mahon” o a un altro racconto di Testori, ma ho rinunciato. Dopo “Rocco” e “L’Arialda” non volevo tornare a fare la periferia milanese. Pensavo a una storia che si svolge nella buona borghesia, ispirata a un racconto di Maupassant. La moglie scopre il marito implicato in un giro di ragazze-milione e si vendica in un modo particolare. Ma non potrò girarlo, a fine marzo dovrò stare qui: riprendere le prove, tutto si sarà allentato, tutto andrà a pezzi. Questo è uno spettacolo dove se uno sbaglia un’entrata crolla ogni cosa. E allora niente “Boccaccio ’61”. Però devo preparare “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, che girerò in novembre. Alla sceneggiatura stanno già lavorando la Cecchi d’Amico, Campanile, Franciosa, Medioli. Per gli interpreti abbiamo interpellato Laurence Olivier. Poi ci saranno Alain e la Cardinale. Speriamo di non avere fastidi almeno con quello. E con “I promessi sposi”, che dovrei fare subito dopo. Manzoni me lo passeranno».
Sfoglia alcuni giornali, gli cade l’occhio su un articolo che comincia: « L’appendicite de Romy Schneider fait ce matin une seconde victime. Plus que jamais Luchino Visconti ressemble à un oiseau de nuit grognon…» e continua nello stesso tono. Non batte ciglio, è davvero un buon incassatore. Ma quando apprende che qualcuno ha definito “diplomatica” l’appendicite di Romy Schneider non riesce a trattenersi: «Quella poverina ha rischiato la pelle e parlano di un trucco per non andare in scena. Possibile che certi giornali diventino così acidi solo quando c’è di mezzo Visconti?». È il momento di parlargli dei procedimenti giudiziari che ha in piedi a suo carico in Italia. «Sarò processatissimo. Tre, quattro processi, Non ricordo quanti. C’è quello per “Rocco”, che si deve fare. Ci tengo. C’è quello per la polemica a gesti con uno spettatore maleducato alla prima dell’“Arialda”. C’è il processone di Testori. In questo pare che non mi vogliano, hanno citato solo l’autore e gli impresari: Stoppa, Cappelli, Paone. Ma chiederò la chiamata di correo, voglio starci anch’io, che diamine».
A che cosa attribuisce Visconti le difficoltà che ha sempre incontrato nella sua carriera? «Non lo so. Sembra sempre che dia fastidio a qualcuno. A un certo ambiente milanese in particolare. Forse perché cerco di ricordare a qualcuno che il “miracolo italiano”, se è veramente tale, deve porsi altri traguardi oltre il palco alla Scala». Farà ancora teatro in Italia? «Ho firmato per fare la “Salomè” di Strauss a Spoleto in giugno. E poi vedremo. Certo non mi arrischierei di mettere in prova neppure Goldoni finché non arriveremo a una chiarificazione in tema di censura. Sono rimasto troppo scottato».
«Monsieur Visconti au téléphone!».
«Eh? No, per carità. Dica che sono uscito. Del resto è quasi la verità». Si alza, sbadiglia, si passa una mano sugli occhi: «Sono stanco. È peggio che se la “generale” ci fosse stata veramente. Torni a Parigi a vedere lo spettacolo: a fine mese, in aprile, maggio, quando ce lo permetterà il medico». Sorride ancora una volta, con l’aria sostenuta del giocatore che ha perso un buon colpo. Guarda dai vetri la gente che passa in Avenue Matignon: «Doveva essere una gran sera. Bah, vado in clinica a vedere se la piccola ha bisogno di qualcosa».
Tullio Kezich
Parigi, marzo 1961
Un pensiero riguardo “Visconti mette in scena a Parigi un’Arialda del XVII secolo”
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