Marzo – Aprile 1963

Caro Visconti, debbo confessarti e confessare al lettore i miei dubbi e perplessità, e la delusione anche, dinanzi al tuo Gattopardo. Ho seguito così da vicino l’opera tua, e difeso con tanta ostinazione il peso che essa aveva ed ha nel contesto del nostro cinema, dai tempi ormai lontani di Ossessione sino al magnifico romanzo breve Il lavoro, da essere definito — e la definizione è tua — il critico in Italia, e non soltanto in Italia, più « viscontiano ». Una sola volta fummo veramente in disaccordo, per Le notti bianche; e rammento ancora la lunga, appassionata e amara discussione sul film, subito dopo la « prima » veneziana. Oggi, non meno di ieri, sono sicuro che quel peso cresce col passar del tempo. In ogni caso Ossessione rimane una prefazione indubbia alla felice stagione del neorealismo, e La terra trema il prodotto artisticamente più compiuto e maturo del nostro cinema. Bellissima era tutt’altro che un’opera « minore »; Rocco continuava la via, da te aperta, del realismo critico, in un momento in cui la moda dell’antiromanzo era già all’apice. Con Senso nasceva il primo, autentico film storico italiano.

Sulla scorta di questo tuo esemplare « itinerario », nel luglio scorso azzardavo, da queste colonne, una previsione: che con Il Gattopardo ci avresti dato un altro grande e vero film storico. Sbagliai allora, o sbaglio oggi? I giudizi che ho letto sul tuo ultimo lavoro sono così positivi, così concordi per la prima volta dinanzi a un’opera tua (1), che forse sono io nel torto, e proprio nel momento in cui il tuo « caso » non è più oggetto di polemica, ma viene riconosciuto il segno araldico — artistico, da autentico Gattopardo — che hai dato al cinema italiano. Non che il tuo film, sul piano della regia, dello stile, del linguaggio, non porti ancora l’impronta della tua grandezza; anzi, per certi versi, la comprova (2). È possibile tuttavia parlare di un tuo, tutto tuo, Gattopardo? Il motivo del mio dissenso, dei miei dubbi e perplessità, è duplice. L’amore che avevi sempre dimostrato per i classici della letteratura non perveniva mai a un atteggiamento di acritica, immobile venerazione. Li studiavi ed elaboravi; la scelta dei testi di partenza comportava uno sviluppo, una capacità a cogliere la loro eredità vitale, un’attitudine ad assorbire quanto di grande essi contengono ancora e a portarlo avanti. Non solo Cain e Camillo Boito, ma anche Verga e Dostoevskij erano da te riletti criticamente quando non addirittura « ribaltati »: risultavano operanti in un continuo incontro e integrarsi del passato vivo — del patrimonio ideale e formale della letteratura, della tradizione intellettuale — con l’esperienza originale, in cui la tua ispirazione, invenzione, scaturiva direttamente dai fatti della vita e dai problemi della esistenza contemporanea.

A me sembra invece che, dinanzi a Lampedusa, tu non abbia operato una meditazione cosciente e precisa del passato e del presente insieme; che il testo letterario non sia diventato per te una fonte di ispirazione, e neppure la più vera: non lo adoperi in modo affatto personale, distinguendoti dal modello in concomitanza con gli strumenti espressivi e culturali acquisiti. I veri sceneggiatori de Il Gattopardo non sono Suso Cecchi d’Amico, e Medioli e Festa Campanile, e tu stesso. L’autentico sceneggiatore del film è Lampedusa; anche i dialoghi sono suoi. Sei rimasto fedele nei minimi particolari: persino Bendicò, il cane del Principe, insegue festoso Tancredi quando questi, falso garibaldino ed eroe del doppio gioco, parte per partecipare ai moti di Palermo; persino il gesuita Pirrone soffia via un peluzzo dalla propria manica e si rituffa nelle astrazioni in una scena del film. Certo la fedeltà al testo non va presa sempre alla lettera: monologhi interiori diventano dialoghi, esistono posposizioni, alcune sequenze sono suggerite da capitoli tolti, altre ampliate o accorciate; il film termina con il ballo a Palazzo Ponteleone. Qualche breve parte è nuova (il colloquio di don Calogero Sedara, sindaco di Donnafugata, prima del plebiscito), altre prendono un sapore diverso: la scena « clairiana » in cui vengono letti i risultati delle votazioni; e la figura del colonnello che ha ferito Garibaldi ad Aspromonte è ridicolizzata (3). Possiamo comunque leggere il film, per così dire, con il testo (il romanzo di Lampedusa) a fronte. Il motivo di fondo, la costante della tua precedente attività, non si verifica: cioè lo spostamento di peso dei personaggi rispetto a quelli della pagina. Ci troviamo dinanzi, intendo dire, a una « traduzione » nel senso crociano del termine: a una « variazione » e, bella com’è, a una nuova opera d’arte. Di cui però sei un coautore, non l’autore.

Di qui il secondo motivo del mio dissenso. Il Gattopardo, essendo al tempo stesso opera tua e di Lampedusa — di Lampedusa soggettista oltre che sceneggiatore; tua quale regista — non costituisce la continuazione del discorso da te iniziato con Senso; in tale discorso, mancando appunto lo spostamento di peso dei personaggi, non offri una dimensione diversa alle vicende private e alla visione storica del romanzo. Abbiamo ancora un epos della decadenza, ma proprio nello stile del Principe don Fabrizio Salina, del Gattopardo rassegnato e ironico spettatore del suo declino, di un passaggio da un’epoca all’altra — quella borbonica e quella dei « nuovi ricchi » — inteso solo apparentemente e nei suoi lati del tutto negativi. A me pare che qui anche tu finisca col rimpiangere un’insegna araldica, un Gattopardo scettico e pessimista che si ostina a considerare la vita, la storia, come un falso movimento, una ripetizione di fatti in apparenza diversi ma in realtà uguali, dove i protagonisti cambiano nome, e molti anche ceto sociale, ma restano simili nella sostanza, « gattopardi » o « sciacalli » che siano.

Nel film non avverto quell’ampiezza di visione storica, rispetto al romanzo, che attendevo. In fondo concludi allo stesso modo di Lampedusa: «In quell’epoca molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia; una rumorosa, romantica commedia con qualche macchiolina di sangue sulla veste buffonesca ». Le macchioline di sangue prendono drammatiche proporzioni nel tuo finale: la fucilazione all’alba — dopo il gran ballo — di quei soldati che avevano disertato l’esercito regio per seguire Garibaldi. « Ora possiamo stare tranquilli », commenta don Calogero Sedara, il nuovo ricco che finirà deputato al Parlamento. « Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi »: è il Leitmotiv del Lampedusa e del tuo film. La rivoluzione tradita, Garibaldi ferito ad Aspromonte e messo fuori gioco. Al canto funebre della nobiltà borbonica, che tuttavia nella congiuntura sociale conserva i suoi privilegi (le bellissime, stupende sequenze del ballo) fa riscontro una immagine della crisi risorgimentale: le fucilazioni, appunto, ordinate contro coloro che volevano portare fino in fondo il movimento di una libertà effettiva, che fosse riscatto e progresso sociale, giustizia, eliminazione della miseria (4).

Il Risorgimento fu conquista regia e non popolare, riaffermi sulla falsariga di storici quali lo Smith e di romanzieri come Pirandello e Verga, De Roberto e Lampedusa stesso. Ma senza la prospettiva storica di Senso, che del movimento oltre i limiti metteva in rilievo, e con forza polemica e civile, anche i valori: la nuova coscienza che, nel passaggio dai « gattopardi» agli « sciacalli », o meglio nella loro sinistra intesa, veniva attuandosi in una parte degli italiani. Qui, invece, vedi nel Risorgimento un fenomeno inutile e del tutto negativo, una completa « bancarotta ». Riapprodi cioè alla tematica de Le notti bianche, e dello stesso Lampedusa: che la natura umana è tale (e in ispecie quella dei siciliani) che nulla si può fare per cambiarla; metti sullo stesso piano la sconfitta contingente, di un periodo della nostra storia, e l’immobilismo inteso come condizione eterna e fatale, immutabile per principio. Questo cambiamento di prospettiva, in un autore guida quale tu sei, accresce le mie perplessità sul tuo lavoro futuro: gli annunciati film da Proust e Camus. Perplessità che aumenta di fronte a un’omissione sintomatica in un’opera che, come Il Gattopardo, è cosi fedele allo spirito del romanzo, e non soltanto ad esso. Dice don Fabrizio Salina al nobiluomo Aimone Chevalley nel dialogo omesso: « Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato di cose, qui ed altrove, è del feudalesimo; mia cioè, per così dire ».

Sarebbe facile pensare che questa volta, dopo i concreti furori di Senso, tu abbia fatto la stessa riflessione del Lampedusa, tramite Salina, dinanzi al ballo che appassisce: « Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? Sono forse più intelligente, sono certamente più colto di loro, ma sono della medesima risma, con essi debbo solidarizzare ». In Senso tu solidarizzavi, e inequivocabilmente, con il conte Ussoni che, aperto a una realtà veramente nuova, autentico garibaldino, non era della risma né di Salina né di Tancredi Falconeri. Ed io continuo a credere che in te ci sia Ussoni, anche se dal tuo ultimo film non si direbbe.

Guido Aristarco

  1. Qualche eccezione: l’articolo di Gian Maria Guglielmino su La Gazzetta del Popolo e di Ugo Casiraghi su l’Unità (edizione Alta Italia).
  2. Potrei elencare pagine e pagine di un rigore tecnico e stilistico esemplare: il Te Deum del Duomo di Donnafugata, con i Salina seduti nel coro, a esempio. Ho ritrovato rimandi espressivi a La terra trema e a Senso: i movimenti ampi, lenti e solenni della « camera », i quali scoprono sempre particolari significanti. La scena in cui la macchina da ripresa segue Angelica attraverso le porte degli appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formano un intrico labirintico e misterioso (ritrovo « per quegli oscuri piaceri nei quali si era compiaciuto il settecento agonizzante »), ha analoga struttura delle scene in cui, ne La terra trema, arrivano i pignoratori nella casa del nespolo, e, in Senso, Livia ruba il denaro per darlo all’amante. Altri hanno sottolineato giustamente l’impegno pittorico, l’impiego del colore. Con Rotunno, degno erede di Aldo, hai saputo vivificare le pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole, la violenza del paesaggio siciliano, « questa crudeltà di clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti ». Il tuo « genio spettacolare » non ha niente in comune con Via col vento, opera mediocre sotto ogni aspetto.
  3. Aspromonte: è uno dei motivi che speravo venissero da te sviluppati. Il rapporto di Cialdini che parla di « un aspro combattimento », e che invece durò solo dieci minuti. « Lo sbrindellato esercito dei volontari non s’aspettava che dei compatrioti aprissero il fuoco e aveva l’ordine di non sparare; tuttavia il gruppo comandato da Menotti fu incapace di restar tranquillo senza rispondere. Sette soldati e cinque volontari furono uccisi. Debbono aver mirato deliberatamente a Garibaldi in persona, giacché fu colpito due volte ». È vero, da quell’episodio, tu prendi quei soldati che avevano disertato dall’esercito regio per unirsi a Garibaldi, e che furono subito fucilati senza processo. Le « truppe vittoriose » in quello scontro meschino e unilaterale furono ricompensate con settantasei medaglie al valore, e il colonnello comandante fu fatto generale, per tacere di molte altre promozioni. Ma tu non metti ugualmente in risalto che « il resto d’Italia non era però altrettanto orgoglioso della faccenda. I proclami regi vennero strappati, ci furono schiamazzi e fischi, e per esempio a Messina la gente impedì che la banda suonasse nei giardini pubblici » (Cfr. Denis Mack Smith, Garibaldi). In Senso ci avevi fatto vedere la battaglia di Custoza, e detto per quale motivo essa fu una sconfitta.
  4. Antonio Gramsci, Il Risorgimento.