Le prime importanti collaborazioni sul set e i rapporti politici con il PCI di Togliatti, gli incontri con Renoir e i viaggi in treno a Venezia, le manifestazioni di amicizia e stima e i litigi e le rotture violente. Tra pubblico e privato, confessioni e scelte di vita, i ricordi personali di chi per tanti anni ha avuto il privilegio di frequentare un grande del Novecento.
Uno dei tanti vantaggi che ho avuto negli anni in cui sono stato vicino a Visconti, è stato di poter conoscere certi punti solo apparentemente marginali della sua vita e anche alcuni aspetti della sua formazione. Alcuni spunti me li aveva forniti Antonioni che gli era diventato amico nel ’44 e che mi raccontava di lui con vera passione a partire dal cuoco di Chamberlain che Visconti era riuscito ad annoverare fra le sue persone di servizio nell’immediato dopoguerra e che li faceva impazzire tutti con manicaretti assolutamente bizzarri nel famoso casale sulla Salaria. Sempre da Antonioni ero stato istruito sulla sola grande storia eterosessuale avuta da Visconti con una principessa austriaca la cui famiglia era di sangue reale così blu da non potersi permettere un matrimonio con un semplice Visconti di Modrone milanese. E ancora da Antonioni ricordo di aver avuto i racconti dell’atmosfera abbastanza straordinaria che c’era nella casa di Luchino nei mesi dell’immediato dopoguerra. Dove ci trovavi dagli intellettuali comunisti militanti della resistenza romana come Claudio Forges Davanzati, Franco Ferri, Mario Alicata e Rinaldo Ricci che aveva tradotto il primo testo teatrale messo in scena da Visconti nella primavera del ’45: I parenti terribili di Cocteau. Antonioni mi raccontava anche di avere conosciuto da Luchino, nei mesi del ’46-’47 in cui sceneggiavano insieme a Pietrangeli Il processo di Maria Tarnowska, anche Guttuso, Turcato e il geniale e bellissimo ventenne che aveva appena esposto le sue stupefacenti periferie a “La margherita” di Irene Brin e Gasparo del Corso nella nascente via Bissolati romana e che si chiamava Renzo Vespignani.
Racconto queste sia pure minimali informazioni precedenti i miei rapporti diretti con Visconti perché penso che su un personaggio così possano essere utili anche alcune delle cose che non si ritrovano nelle tante biografie che sono state pubblicate finora. E sempre per restare intanto alle notizie “indirette” che mi trovai a raccogliere su di lui negli anni della nostra amicizia, c’è l’incredibile timidezza che Jean Renoir mi descriveva di un Luchino giovane, ai tempi in cui Cocò Chanel glielo presentò raccomandandolo «comme assistent décorateur» nella Partie de campagne che stava per incominciare. Renoir mi mimava i movimenti rapidi e silenziosi di Luchino su quel set dicendomi della sua grande bellezza e della totale concentrazione nel lavoro. Quando raccontai a Luchino — odio quelli che chiamano con il primo nome i personaggi importanti che hanno conosciuto, ma in questo articolo è fatale che ogni tanto il vezzo venga fuori — di come lo raccontava Renoir, ricordo che rimase pensieroso, poi mi spiegò che in realtà lui era vessato da Becker che all’epoca era il primo aiuto di Renoir e che aveva imposto sul set una severità quasi militare. E mi raccontò subito dopo, con una insolita autoironia, la storia di quando per alcuni giorni Becker gli fece fare il segretario di edizione e lui sbagliò un raccordo in modo così grave che si dovette tornare in esterni con tutta la troupe per rigirare una scena con l’attore senza il piegabaffi che si era tolto nella scena precedente, senza che il segretario di edizione pro tempore lo avesse scritto. Ricordo che insinuai scherzosamente qualcosa che legava quell’episodio alla sua leggendaria ferocia con gli aiuti, ma lui a quel punto smise di colpo l’ironia e preferì cambiare discorso.
E a proposito dei suoi aiuti e della sua ferocia, a me successe che nell’unica volta in cui fui suo aiuto in senso vero e proprio e cioè nell’episodio della Magnani di Siamo donne, io mi meravigliavo di un trattamento quasi civile che mi riservava. C’era il fatto che nel frattempo eravamo diventati amici e che lui aveva molto amato un mio documentario, come dirò fra poco. Ma anche i suoi collaboratori fissi come il fotografo Paul Ronald si meravigliavano di tanta soavità. Poi però ci fu la cena di fine lavorazione con la Magnani e tutta la troupe. E in quell’occasione Luchino mi chiese di fare con lui un brindisi e una promessa solenne. La promessa era che quando, come oramai era nell’aria, avessi girato il mio primo film lo avrei preso come mio aiuto-regista. Io naturalmente mi schermii, risi, ma poiché lui insisteva alla fine dissi davanti a tutti: «ti prometto che al mio primo film ti prenderò a lavorare con me». «Sì — continuò lui — ecco, così ti insegnerò come si fa l’aiuto regista». Tutti risero senza dare troppo peso a quello scambio, ma io invece capii quanto e come si era evidentemente dovuto-voluto trattenere durante tutte quelle, per fortuna poche, settimane di riprese.
E sempre riguardo a quella lavorazione devo dire che una prima avvisaglia del suo estremo e inabituale rigore l’avevo avuta quando mi chiese di girare gli sfondi per i trasparenti della Magnani nel famoso taxi che la porta al teatro. Ricordo che gli avevo detto con professionale sufficienza qualcosa come «va bene, devo girare tutto il pezzo di via Venti Settembre, poi il Quirinale e via della Dataria, no?», e lui mi aveva detto «si, vieni da me domattina che ne parliamo, alle otto e mezza». Sobbalzai per quell’orario assolutamente insolito ma poi, nel corso della mattinata, mi resi conto di come lui considerava il lavoro altra cosa da tutto. Stemmo tre o quattro ore a definire con quali obiettivi e quali luci avrei dovuto girare con tre macchine il primo pezzo rettilineo per poi modificare tutto quando il taxi gira ampiamente intorno a Castore e Polluce per poi infilarsi nella gran discesa della Dataria. A mezzogiorno uscii sulla Salaria che avevo avuto una lezione indimenticabile: contro lo scetticismo laico e un po’ salottiero del cinema come si viveva e faceva a Roma sotto il segno di Flaiano e Suso, Rosati, “Otello” e la libreria Rossetti nella parte alta di via Veneto, quasi all’angolo di quella via Lazio dove abitava il grande Blasetti, Visconti e tutta la sua attitudine severa verso il lavoro si proponevano come un’improvvisa e salutare alternativa, più luterana che nordica, in fondo. Io a quell’epoca ero stato già sceneggiatore e aiuto in due film di Antonioni che era comunque uomo e artista di una pasta speciale e anomala, ma devo dire che niente come quelle settimane di lavoro diretto e concreto con Visconti — Senso l’avevo seguito più da amico — mi aiutarono a capire meglio il cinema e me stesso.
Continuando i ricordi “alla rinfusa” — com’erano le figurine del concorso Perugina quando non si voleva classificarle nel famoso album — con l’idea di poter fornire qualche elemento in più a chi davvero studia o studierà questa straordinaria personalità, mi viene il racconto di un viaggio in treno che facemmo insieme a Venezia dove c’era, alla Mostra del Cinema, la prima assoluta di Senso che aveva subito il massacro della censura nella scena decisiva tra Girotti e il generale dell’esercito piemontese. Io avevo seguito buona parte del film, e in due o tre occasioni ero anche stato interpellato da Visconti su dei cambiamenti importanti di sceneggiatura che lui compì nel corso della lavorazione. Perché intanto era nata fra noi un’amicizia vera, credo a partire da una proiezione degli ultimi documentari che avevo girato nel ’52, fra cui c’era Ombrellai che lo colpì positivamente, al punto da dichiarare poche sere dopo a Sadoul; che dopo averlo visto aveva deciso che ero l’unico regista cui avrebbe affidato la regia dei due episodi che il primissimo progetto de La terra trema prevedeva. Avevo appena compiuto ventidue anni, eravamo al ristorante “Al Bolognese” di piazza del Popolo e ricordo che mi sentii leggermente svenire dall’emozione. Mi ripresi subito ma qualche settimana dopo, quando ci riferirono che quel discorso era stato raccontato da Sadoul non so su quale giornale francese, Visconti mi disse una frase simpatica che non ricordo bene ma che implicava che si era perfettamente reso conto di quel mio momento che credevo d’aver perfettamente dissimulato. In treno, dicevo. Intanto era successo che per un disguido io non avevo posto e lui fece modificare in “doppio” il suo scompartimento singolo dei Wagon-lits per ospitarmi. Prima di addormentarci chiacchierammo un po’ e vennero fuori alcune sue immagini dell’infanzia, quando il loro padre impose a lui e ai fratelli Eduardo e Luigi un’educazione strettamente militare, con tanto di sveglia alle sei, marce e allenamenti di ogni tipo. Una volta, mi raccontò, per poco non moriva perché voleva dimostrare al loro colonnello precettore una sua invenzione che precedeva in qualche modo quella del paracadute: si buttò dall’alto di un muraglione con un grande ombrello aperto che non servì a farlo planare ma comunque lo protesse abbastanza da non fargli rompere schiena e gambe come temettero tutti.
Aveva un grande amore per la mia compagna di allora — e di tanti anni successivi — che era Goliarda Sapienza cui scrisse, ricordo, «sei una delle poche persone che stimo». E in effetti credo che tutti e due in quell’epoca godemmo di un atteggiamento assolutamente privilegiato da parte sua. Per esempio, per la messa in produzione del mio primo film di lungometraggio lui fece molto, compreso mettere dei soldi contanti che mi dette durante le prove di Come le foglie che lui preparava a Milano, a pochi chilometri dalla villa di Toscanini a Ripalta Guerrina, dove tra mille difficoltà stavo girando Gli sbandati. E quando il film andò in concorso a Venezia, Luchino si stabilì al “Des bains” e insieme a Lello Bersani “lavorò” per me al punto che il suo compagno di allora — l’abbiamo ricordato insieme recentemente in una conversazione registrata ne Un luogo chiamato cinema — gli disse «voglio vedere se quando farò io il mio primo film tu farai quello che stai facendo adesso per Citto». Però in realtà Camping, il primo film di Zeffirelli girato qualche anno dopo, non piacque neanche al suo regista, rivelatosi ben altrimenti con lo straordinario Romeo e Giulietta di dieci anni dopo.
Andando avanti nei ricordi mi viene da dire della vera e propria deferenza che Visconti dimostrò verso Joris Ivens — con cui avevo convissuto in anni di comune povertà nel più povero albergo, allora, di Parigi. Questa è tutta un’altra storia, ma ricordo che mi ero fissato di farli conoscere: Joris mi aveva raccontato di averlo visto una volta in un’occasione ufficiale, ma non si erano nemmeno parlati. L’incontro mi pare che avvenne nel ’61, quando già i miei rapporti con Visconti si erano raffreddati ma restava comunque naturale che stessimo insieme durante le prove di Dommage que soit une… con Delon e la Schneider. Si erano guastati qualche anno prima i nostri rapporti, e fu perché dopo Le notti bianche, che non mi era piaciuto e glielo avevo detto, cercai di convincerlo a non riprendere a far teatro perché l’avrebbe distratto dall’idea primigenia di Rocco e i suoi fratelli che già aveva in qualche modo per la testa. Inaspettatamente lui si offese di questa mia interferenza e probabilmente ancor più per la mia sicuramente esagerata e troppo polemica insistenza. E insomma si chiuse così, di colpo, un rapporto che per anni ci aveva visto insieme quasi tutti i giorni. «Questo era l’uomo», scriverebbe Giorgio Bocca.
Ma se racconto questo dato del tutto personale è per arrivare ad un altro episodio che mi pare invece davvero significativo della personalità di Luchino Visconti. Io avevo scritto nel ’61 un soggetto che cominciai a sceneggiare con Patroni Griffi. Si chiamava La casa vuota ed era la storia di un intellettuale comunista che si suicidava a trentatré anni. Non si doveva capire se era proprio un suicidio o un incidente e insomma i flashbacks del film cominciavano con la problematicità di questa morte. Qualcuno doveva aver raccontato a modo suo la storia per cui Luchino mi telefonò una mattina invitandomi da lui a pranzo. Non succedeva ormai da tanto, e specie dopo che la sua ambigua andata-non andata a Venezia nel ’60 — nessun autore presente, aveva decretato L’ANAC, contro un certo Lonero imposto alla Biennale dalla DC — non era piaciuta né a me né a Vancini che era al suo primo film. Comunque il motivo di quella sua improvvisa “convocazione” venne subito fuori ed era l’idea distorta che gli era stata data di questo mio nuovo film che l’aveva fatto pensare a una mia «conversione spiritualista, alla Fellini per capirci». Lo tranquillizzai su questo punto e lui mi disse «non ci vediamo da un po’ ma sullo spiritualismo e simili non si scherza, dovevamo parlarne». Già, perché allora i temi di un “neospiritualismo” rinascente nel grande alveo neotomista della cattolica di Milano, avevano anche una forte valenza politica e Antonello Trombadori ed io rappresentavamo, all’epoca e in qualche modo, il suo legame indiretto con il partito comunista. C’erano stati i rapporti con Alicata e Ingrao nel passato, la visita di Togliatti dopo Le tre sorelle e i suoi giudizi positivi che Visconti citava sempre, ma negli anni Cinquanta i suoi rapporti con il PCI eravamo Antonello ed io. Non a caso nei primi giorni di riprese di Senso a Valeggio sul Mincio mi tempestò di telefonate perché fossi sicuramente io, a Roma, a leggere all’assemblea del circolo italiano del cinema il famoso messaggio di solidarietà che lui e tutta la troupe di Senso inviavano a Renzi e Aristarco imprigionati.
C’è pure il fatto divertente che, durante quel pranzo, arrivarono due ufficiali giudiziari che lavorarono a elencare sottovoce e segnare su un grande modulo gli oggetti che la cortesia del Monte di pietà di piazza Fiume consentiva che, pignorati, restassero a casa sua. Come ha ricordato in Frammenti di Novecento l’allora maggiordomo di Visconti, Ignazio Maccarone, l’arrivo in via Salaria degli ufficiali giudiziari e particolarmente all’ora del pasto, era un fatto abbastanza frequente. Loro in genere si scusavano per il disturbo e ricordo che Luchino, chiunque avesse a colazione, gli diceva «ma figuratevi, fate il vostro lavoro, ci mancherebbe». E si continuava a mangiare e parlare di qualunque argomento, mentre i due incaricati ci circolavano intorno mormorandosi a bassissima voce cose come: «un obelisco di alabastro, altezza trentatré centimetri, portacenere in forma di fontana con colombe…».
Ignazio Maccarone era anche incaricato di «chiudere i cani» quando arrivavo io che ne avevo paura, ed era stato uno degli attori “presi dalla strada” de La terra trema. Con lui abbiamo ricostruito che era stato fra il ‘52 e il ‘53 che, per la prima volta, Luchino aveva ricominciato a guidare. Fedele alla marca Lancia con cui aveva avuto il famoso incidente abbastanza ben raccontato da alcune biografie, aveva preso un’Appia che guidava con grande e compassata prudenza. Ma in genere preferiva che guidasse Zeffirelli o un misterioso autista milanese, anziano e altissimo, che veniva ogni tanto a Roma a fare qualcosa in giardino. Nella mia testa, ricordo, avevo sempre immaginato fosse il padre o un fratello del meccanico che finì decapitato mentre Visconti guidava nel ’37 (30 settembre 1929 n.d.c.), ma chissà. Molte cose di Visconti le ho raccontate, oltre che in Frammenti di novecento prodotto dal Luce anche nelle tre puntate che ho dedicato a lui tra le venti di Un luogo chiamato cinema della RAI: la serata con Marlene Dietrich, la fuga di Farley Granger, la morte di Aldò e i problemi con il nuovo direttore della fotografia che era il Krasker dell’Enrico quinto. E poi il clima che c’era fra lui, Zeffirelli e me in quei primi anni Cinquanta e tante altre cose grandi e piccole che invece mi tornano alla mente adesso, ma che non ho lo spazio per raccontare qui. Potrebbe essere l’occasione per tornarci sopra, al di là dei forse inevitabili narcisismi che finiscono un po’ per venir fuori quando si raccontano certe cose. Me ne scuso con i lettori nella speranza che questi miei pezzetti di vita in comune possano comunque e in qualche modo servire alla conoscenza di questo grande del Novecento.
Francesco Maselli 2006