È passato poco più di un anno dal Convegno di Parma dedicato al neorealismo, durante il quale si levarono fiere voci e unanimi in difesa di quella che è stata (bisogna, oggi, purtroppo dire cosi) la corrente vitale del nostro cinema, e appena sei mesi dal controconvegno di Varese destinato a celebrarne la morte e risurrezione (sotto nuove spoglie naturalmente), che allo squillo di trombe udito da destra già a sinistra risponde uno squillo. E fra i trombettieri di questa parte c’è anche Cinema Nuovo e il mio caro Aristarco, che intona la sua cavatina sullo stentoreo do dell’amico Salinari.

Che avevano detto le trombe cattoliche? Il neorealismo è morto o, meglio, si è evoluto arricchendosi di valori spirituali, religiosi, umani. Esempio: La strada di Fellini, premiata a Venezia dall’OCIC, l’Ufficio cattolico internazionale cinematografico. Che rispondono le trombe a sinistra? Il neorealismo è morto o, meglio, sì è evoluto in realismo passando dalla cronaca alla storia. Esempio: Senso di Visconti, boicottato dalle autorità governative, dalla censura, dalla Giuria di Venezia ed “escluso per tutti” gli osservanti dal Centro cattolico cinematografico. Anche dopo questo 25 luglio del neorealismo, dunque, la guerra continua. Ma continua su un altro piano che ci sta già portando minacciosamente verso un nuovo 8 settembre cinematografico.

Si lasci almeno chi non crede a queste metamorfosi, che hanno riportato il nostro cinema, rinsavito figliuol prodigo, tra le braccia accoglienti della letteratura, secondo i più tradizionali moduli, piangere il defunto e tesserne l’elogio in poche parole innanzi a un gruppo di amici perché eredi non pare ne abbia.

UNA NUOVA DIMENSIONE

Neorealismo poteva anche essere una denominazione impropria; comunque con essa si volevano indicare quei film come Roma città aperta, Paisà, Sciuscià, Ladri di biciclette, La terra trema, Umberto D., per citare solo i più importanti che, con limiti, difetti e atteggiamenti diversi, avevano in comune uno spirito nuovo, nato dalla Resistenza, che si rivelava nell’illuminazione di una nuova forma, frutto di un approfondimento, quasi una conquista del linguaggio cinematografico. Di qui il loro successo in tutto il mondo, che riscopriva con essi (come già coi grandi film sovietici dopo la rivoluzione d’ottobre) i valori espressivi del film in una nuova dimensione di tempo e di spazio. Ai personaggi delle passate e convenzionali narrazioni si sostituivano gli uomini nella loro realtà; alle vicende prefabbricate dei romanzi o delle commedie le “cronache”, se cosi vogliamo chiamare quelle colte sul vivo dell’esistenza quotidiana, eccezionale o comune che fosse; ai virtuosismi figurativi o. pittorici il palpitante documento fotografico; alle scene di cartapesta e alle comparse le città e le campagne con la gente che effettivamente le popola. Questa è l’Italia, si disse, coi suoi dolori, le sue miserie, le sue ingiustizie, le sue grandezze e si cercò di darne un ritratto quanto più fedele e veritiero possibile, si che codesta realtà, senza fatturazioni e intrusioni apparenti, sembrasse parlare di per sé sola. I registi non erano saputi, ma, curiosi, volevano conoscere per far conoscere.

SPETTACOLO E FILM

Da questa curiosità cosi carica d’amore e di emozione, dallo sforzo di essere quanto più possibile “oggettivi”, nasceva il nuovo stile del cinema italiano nel quale l’idea e la realtà si fondevano senza che più si avvertisse la sovrapposizione. Il film parlava con un suo linguaggio intraducibile e con la sua specifica potenza realistica tanto diversa da quella della parola o della pittura. E non fu proprio questo impeto, questa volontà realistica a far avvertire l’autonomia dei mezzi espressivi del cinema, non fu proprio «la conquista di un nuovo punto di vista da cui guardare il mondo», per dirla con Salinari citato da Aristarco, che fece gettare via gli scartafacci, le dive imbalsamate nella bellezza e i “telefoni bianchi”? Non è proprio dalla forma di codesti film (forma portatrice di idee) che si può giudicare del loro realismo?

Naturalismo, cronachismo si è detto, ma a torto, almeno per quei film che possono dirsi veramente neorealisti, in quanto la rappresentazione non era fine a se stessa (virtuosismo da “trompe-l’oeil”) o il racconto fredda registrazione di fatti, bensì l’una e l’altro sorgevano dall’esigenza interiore di esprimere idee e sentimenti, non astratti e schematizzati, ma quelli proprio che la realtà suggeriva. Che un tale pericolo incombesse sul neorealismo, decadendo esso a cifra, modulo stereotipato, è più che pacifico, ma allora il fatto negativo era da ravvisarsi nell’insincerità, nell’imitazione, nella falsa arte, insomma, e non nell’assenza di un’idea. Tanto è vero che Cielo sulla palude, esteriormente neorealistico e fondato su una precisa idea religiosa, rimane, ciò nonostante, un film artisticamente mancato.

Se la scelta del soggetto, come diceva Goethe, è già poetare, lo è perché in questa scelta sono presenti i modi della rappresentazione: cosi non a caso i soggetti dei film neorealisti sono di ordine sociale, lontani da ogni psicologismo più o meno melodrammatico, in quanto tendono a esprimere con l’icasticità e l’evidenza del ritrovato linguaggio cinematografico il rapporto dell’uomo con la natura, l’ambiente, la società, che le grandi vicende storiche degli ultimi quarant’anni hanno fatto venire decisamente in primo piano. Ed ecco che nella forma si esprime l’atteggiamento dell’artista, cioè il suo modo di sentire e di pensare, di giudicare quel contenuto (il soggetto, se volete) che egli sceglie per la sua opera.

E veniamo a Senso, oggetto della polemica. Io ho affermato non potersi definire neorealista questo film non perché segnerebbe un passo avanti, il passaggio al realismo come dicono i miei contraddittori, ma perché, invece, tornando indietro sul tradizionale piano spettacolare (letterario, teatrale) rappresenta un’aperta contraddizione del neorealismo: una negazione anziché uno sviluppo e un approfondimento. Una strada che non può portare a superarlo, è evidente, né a raggiungere un più pieno realismo. L’equivoco in cui sembrano cadere quanti sostengono il contrario è caratteristico di un astratto contenutismo che, per essere indifferente alla forma, giudica il film dal soggetto, valutato in base a moduli letterari (personaggio, eroe positivo che sia), e si fa sfuggire il vero contenuto, legato necessariamente ai modi della rappresentazione.

Senso è innanzitutto uno spettacolo, di altissimo livello, ma uno spettacolo. Cosa ciò voglia dire e perché cercherò di esprimere in poche parole.

Lo spettacolo (e qui si parla nel significato che intendo dare a quello cinematografico in contrapposto al film) tende per sua natura all’effetto attraverso l’esteriorizzazione di un testo, puntando su uno o più degli elementi che lo compongono. Sia lo stesso soggetto per l’originalità dell’intreccio o la psicologia eccezionale dei personaggi o anche per il suo valore letterario (drammi e romanzi); sia la forza d’attrazione degli attori; sia la suggestione dell’ambiente; sia la bellezza e ricchezza delle immagini; sia in fine l’uso degli stessi mezzi espressivi del cinema in funzione del tutto esteriore per bombardare il pubblico con superficiali emozioni. E questo effetto, al quale lo spettacolo tende, può essere grossolano e banale come raffinato e intelligente, ma sempre effetto destinato a far prevalere il modo della rappresentazione sulla sostanza della cosa rappresentata.

Modo certamente assai elevato quello di Senso, tanto da nobilitare la consueta mediocrità dello spettacolo cinematografico, ma che pure sopraffà personaggi ed eventi del gracile testo (la sceneggiatura) con lo splendore visivo della sua realizzazione: parafrasando una celebre frase si potrebbe dire che in questo film prima viene la scena e poi il racconto. (Qualcosa di simile non è accaduto, con una indubbia precipitazione di gusto rispetto a Visconti, allo stesso Castellani con Giulietta e Romeo?) Del resto in Senso, proprio per le grandi possibilità del cinema sul piano spettacolare, appare acuito quel lato della personalità di Visconti, il suo grande e sopraffattore gusto visivo, che si è rivelato anche nelle regie di teatro, tra le quali resta vivo il ricordo di quella veramente mirabile di Le tre sorelle, dove la poesia di Cecov sembra avergli dato la perfetta misura.

LA PERSONALITA’ DI VISCONTI

Si badi, questa non vuol essere una critica negativa, ma solo una definizione della personalità di Visconti e lo sforzo di rendersi conto di quei limiti del film, che tante lodi e riserve ha incontrato e di cui il semplice spettatore dice giustamente per prima cosa: bello, ma… e qui vengono le riserve sul suo contenuto, sulla forza emotiva, sulla chiarezza dei significati. Non che manchi a Visconti un preciso mondo ideologico, che può trovare anche in Senso chi non si arresti all’ammirazione per la sua forma; visione, tema o tesi non vanno ricercate qua e là nelle battute polemiche o politiche appuntate come spilli sul bellissimo trapunto, ma proprio in quel suo linguaggio visivo, raffinato, che se raffrena e raggela nella composizione del quadro sentimenti e idee, non per tanto è vuoto e astratto arabesco. Si veda, un esempio per tutti, il finale: la fucilazione di Mahler nasce da una precisa concezione morale di condanna per il cinico protagonista assunto a simbolo di un mondo destinato a decomporsi, un mondo che ha avuto il suo splendore, ma che precipiterà nell’ombra. Se non che quei sapienti effetti di luce, quelle zone scure, quelle giacche bianche e la stessa distribuzione armonica e geometrica dei personaggi prendono tale rilievo pittorico, si compongono in un cosi bel quadro da smorzare nell’ammirazione il profondo significato da cui il fotogramma è sorto. Quale diversità con la fucilazione del prete in Roma città aperta!

Se, dunque, Senso è film pregevolissimo e importante perché dimostra che anche sul piano dello spettacolo un regista che ha talento e qualche cosa da dire può fare opera di alto livello e significativa, sbagliano a mio giudizio coloro che lo considerano rivoluzionario e addirittura il ponte tra il neorealismo e il realismo. Salinari lo ha avvicinato a Metello, ma a parte il fatto che i problemi della letteratura non sono quelli del film, è da dire piuttosto che il bel romanzo di Pratolini sembra aver sentito l’influenza anche del neorealismo cinematografico proprio in quell’accostarsi alla realtà sociale con amore e semplicità attraverso uomini e casi tutt’altro che eccezionali, dei quali vale l’umanità nella lotta per la vita e nel tessuto dei rapporti con gli altri al di fuori di ogni complicazione psicologica.

Ben vengano, dunque, opere come questa recente di Visconti, ma allo squillo udito da destra, sulla fine del neorealismo, non rispondiamo con uno squillo a sinistra. Ai realismi con aggettivi (cattolico, socialista, storico) preferiamo sempre il neorealismo per il fatto che la realtà com’è non ci fa paura e a esserle fedeli sappiamo qual è l’unica lezione che se ne può cavare. Come i film dell’’immediato dopoguerra hanno dimostrato.

Luigi Chiarini
25 marzo 1955