Uno dei meriti di « Boccaccio 70 » è quello di aver dato a quattro registi importanti l’opportunità di fare un racconto, di creare qualcosa che strutturalmente non sarebbe mai potuto diventare un lungo film, e perciò non sarebbe nato.

L’idea di Zavattini animatore del film, diciamo subito, è andata dispersa; ma questo non è stato un male dopotutto; vi immaginate Fellini e Visconti mantenersi su una linea comune intorno a un tema circoscritto? No davvero. Quindi le quattro opere vanno esaminate separatamente.

«Renzo e Luciana » è il film di Monicelli, sceneggiato da Arpino, Calvino, la D’Amico e Monicelli stesso. Ci parla del caso di due giovani in una città del Nord che vogliono sposarsi e lo devono fare di nascosto per evitare il licenziamento di lei. È il ritratto dei due ragazzi ridotti, lei in special modo, a una vera e propria gara per districarsi dal groviglio di interessi e di ostacoli di cui la società è fatta fino alla perdita, quasi fisica, di quello che era il significato della loro unione.

Il film è purtroppo molto gracile, forse la sceneggiatura era un’altra cosa: Arpino, che si sente più degli altri, è troppo informato su questi problemi per darne una immagine così superficiale. « Renzo e Luciana » è l’unico dei quattro episodi che non doveva essere così breve: così ristretto rischia di risolversi tutto nella trovata del matrimonio segreto che doveva essere invece solo uno spunto. Infatti i caratteri dei protagonisti sono quasi inesistenti, Monicelli non ha considerato che dovendo scrivere un racconto doveva accentrare i suoi personaggi intorno ad un fatto ben limitato e non, come ha fatto, di fronte a un mondo complesso e contraddittorio che avvolge tutta la loro esistenza. Non è riuscito quindi a creare mai quel contrasto stridente e illuminante fra i protagonisti e il mondo inumano di cui loro stessi fanno parte.

Una occasione perduta, ma comunque un tentativo di esaminare un mondo un pò più da vicino, anche se non è un passo avanti a quanto detto da Olmi nel « Posto » (ma il film di Monicelli è più ben diretto) o esaminato da Gregoretti in un momento dei suoi « Nuovi Angeli ».

« La riffa » di De Sica e Zavattini è il sanguigno, sensuale, focoso ritratto di un premio che ha le fattezze di Sophia Loren e dei suoi aspiranti che hanno quelle di alcuni romagnoli che sembrano usciti da una saporosa barzelletta paesana. Il film è degno del suo autore in quanto a fattura, ritmo, recitazione, Sophia Loren lascia veramente senza fiato, ma, ovviamente, fa rimpiangere un impegno maggiore. Non mi sembra che De Sica possa permettersi altre vacanze, o finiremo con l’andarlo a vedere come si fa per un film dell’ultimo Blasetti o per le anime nere di Rossellini.

Fellini è invece qui impegnatissimo, risponde, e come, ai « moralisti » che accusarono « La dolce vita » di offendere il pudore di noi italiani. Ha preso Peppino De Filippo, acido come solo lui sa essere, gli ha messo un giornale fascista in tasca, l’ha circondato di figuri neri e repellenti le cui occupazioni vanno dall’avere sante visioni notturne a censurare manifesti e l’ha dato in pasto a un mostro da lui stesso creato: una gigantesca e sensualissima Anita Ekberg. Facile immaginare quello che succede: il moralista impazzisce, vittima dei fantasmi da lui stesso stanati dall’inferno e quando Anita gli chiede con candore, mirabile sintesi di tutta l’opera, che male c’è a guardare una donna nuda, a lui non resta, da buon fascista (con addentellati parrocchiali) che ammazzarla.

Con « Le tentazioni del dottor Antonio », Fellini ci ha dato una immagine di certi invasati nostrani così violenta e caustica da ricordare una litografia di Daumier. Certo Fellini non ci ha detto una parola nuova su questo equivoco provinciale che ostacola un incontro sereno fra artista e pubblico; e quello spiegare le vocazioni del suo protagonista come le conseguenze di uno schock giovanile piuttosto che come logica conseguenza di una mentalità arretrata, forse andava evitato. Ma resta il fatto che Fellini ha fatto il punto su una situazione e ha dimostrato con questa variante grottesca e satirica, quanto profondamente suo e acquisito fosse il linguaggio della « Dolce vita ».

Ma l’episodio che veramente ha trovato l’ideale del suo breve respiro è « Il lavoro » di Luchino Visconti.

Il mondo «bene » dell’aristocrazia italiana è in crisi. È in putrefazione dicono i comunisti, hanno una angoscia che li opprime dicono atri, sono disordinati dice Brusati. Anzi a questo proposito nel film di quest’ultimo « Il disordine » c’è una casistica di angosciati veramente numerosa che può essere usata come campionario se ci si vuol documentare sulle deformazioni di un certo modo di vita. Ora che questa crisi esiste ed è grave, a parte l’intervento Brusati il cui film non manca di pregi, è certo e provato. Quella che invece è incerta è l’origine di tutto ciò. Cerca di dircelo senza compiacimenti formalistici Visconti col suo breve film. Il regista qui se la prende con Antonioni, direttamente con « La notte » (innumerevoli sono i riferimenti a fatti, nomi, situazioni di questo film); anche qui infatti Pupe, la protagonista, soffre di angoscia, di noia; ha scoperto i tradimenti del marito e si trova senza più nulla a cui aggrapparsi (pressapoco come la Lidia della « Notte » per intenderci). Questa situazione fatta di meschinità coperte da toni snobistici è l’avvio alla ricerca viscontiana circa la causa di questa attuale agonia. Ma il binario volutamente parallelo a quello di Antonioni si distacca ben presto: quest’ultimo sfugge alla polemica de «Il lavoro » perché le sue creature non appartengono a nessuno strato sociale e quindi neanche a quello di Pupe e Ottavio; essi « vivono » con lo stesso « male » sia se sono la Claudia de « L’avventura » che ebbe un’infanzia giudiziosa, cioè povera, che la moglie dello scrittore Pontano, o la ricchissima Valentina oppure. infine, l’operaio disoccupato de « Il grido ». Questi sono uomini e basta, i personaggi di Visconti sono invece collocabilissimi. Perciò la polemica si rivolge piuttosto verso chi si ostina a non vedere, dice perentoriamente Visconti, che non di noia si tratta (Ottavio va a letto con le « squillo » per divertirsi), non di angoscia, ma di incapacità, propria ormai di una classe sorpassata, ad adeguarsi al resto dell’umanità; in una parola: a lavorare.

Pupe da questo stato vuole reagire, decide di lavorare. Cosa farà, si chiede Ottavio sbigottito? Riuscirà a vincere la sua noiaP Pupe ne è certa, si metterà a lavorare e dimostrerà che tutto non è perduto per una donna della sua educazione. Vedranno Ottavio e suo padre che donna è lei! Infatti Pupe trova lavoro: incasserà quattrocentomila lire dal marito ogni volta che farà l’amore con lui, il prezzo delle squillo. Ecco il lavoro di Pupe, ecco il quadro spietato che Visconti ci dà di questa gente. E le lacrime che bagnano il viso di Romy Schneider (qui attrice sensibilissima) subito scacciate dal sorriso della prostituta che è diventata, sono proprio il canto del cigno di una società senza più ragione di essere.

Per concludere, pensiamo che dopo « Il lavoro », con cui Visconti conferma di essere arrivato al una purezza di stile veramente eccezionale, si dovranno guardare con occhi molto diversi i film, e non solo i film, che parleranno di un mondo simile. Per tornare a Brusati, precedentemente nominato non a caso; provate a vedere l’episodio centrale del « Disordine » dopo aver visto « Il lavoro » e diteci se non vi fanno sorridere i rapporti fra la Lualdi e Jean Sorel fatti di concetti inespressi che sfociano nelle lacrime della protagonista alla conclusione dell’episodio. È inutile: c’è bisogno di concretezza e di chiarezza, e per esse non è detto che si debba rinunciare ad uno stile moderno.

Maurizio Ponzi
Marzo 1962