Il bel mondo di Milano e di Roma si frammischiava al «tout Paris» nella grande serata; poltrone di fortuna erano state pagate 50.000 franchi – Della tragedia di John Ford, Visconti ha fatto uno spettacolo stupendamente orchestrato – Romy Schneider ha soddisfatto in pieno lo spietato regista
(Dal nostro corrispondente)
Parigi, 29 marzo 1961
Per tutto lo spettacolo, Romy Schneider ha tenuto il pubblico col fiato sospeso. Meno di tre settimane dopo essere stata operata di appendicite, la giovane attrice ha voluto interpretare, nonostante il divieto dei medici, Dommage qu’elle soit une P…, la tragedia elisabettiana di John Ford, in cui deve sostenere una parte massacrante.
Aveva ancora il languore della convalescente, ieri sera, quando è entrata in scena per la prima rappresentazione, ma a poco a poco è andata rianimandosi, ha preso impeto ed ha affrontato con intrepida sicurezza la scena più violenta, quella in cui il marito la getta a terra, la calpesta, la trascina a calci da un capo all’altro del palcoscenico per farsi confessare il nome dell’amante. La sua appassionata interpretazione è stata uno dei maggiori elementi di successo del lavoro diretto da Luchino Visconti.
C’era tutta Parigi nella platea del Théâtre de Paris, da Charles Trenet a Martine Carol, ma c’era anche tutta Milano e una gran parte di Roma, con Anna Magnani alla testa. Da due o tre giorni, una insolita animazione dominava le terrazze dei caffè di St. Germain des Prés; la gente parlava ad alta voce, si incrociavano conversazioni da un tavolo all’altro.
Stranamente, però, nessuno degli avventori del Deux Magots parlava nei giorni scorsi francese; parlavano tutti italiano e, in genere, con un inconfondibile accento milanese. Erano, infatti, gli ammiratori di Luchino, che erano già venuti a Parigi tre settimane fa per assistere alla prima di Dommage qu’elle soit une P… ma erano rimasti delusi a causa dell’attacco di appendicite dell’attrice che aveva fatto rinviare lo spettacolo.
Ostinati, gli italiani hanno rifatto il viaggio in aereo e per due o tre giorni tutti i più celebri itinerari turistici parigini, da Place Pigalle all’Avenue des Champs Elysées, sono rimasti in balìa della borghesia lombarda, infaticabile e rumorosa, dappertutto presente a ogni ora del giorno e della notte. I posti del teatro sono stati subito esauriti e molti italiani hanno dovuto pagare uno strapuntino fino a 50 mila franchi.
Al levarsi del sipario il pubblico è rimasto subito soggiogato dal gioco prospettico della prima scena, rigoroso e freddo come un teorema di geometria, nella quale Visconti ha ricostruito il Teatro Farnese di Parma, disegnato dall’architetto Gian Battista Aleotti nel 1618. Da quel momento, la vicenda dell’amore incestuoso di Giovanni e Annabella, il fratello e la sorella che sfidano le convenzioni sociali e le stesse leggi della natura per non rinunciare alla loro passione, si svolge con un ritmo perfetto di voci e di luci, di suoni e di pause, in cui neppure il gesto più insignificante è affidato al caso.
La settimana scorsa, ad un giornalista francese che gli aveva chiesto che cosa avrebbe voluto fare se non avesse fatto il regista, Luchino rispose: «Ho studiato molto la musica quando ero ragazzo e credo che la musica sia la forma d’arte più nobile; se non avessi fatto il regista, penso che sarei stato direttore d’orchestra». Li per lì era sembrato che fosse una boutade, tanto per rispondere qualcosa a una domanda oziosa, mentre invece si trattava di una risposta che contiene la definizione più appropriata della sua arte: egli ha messo in scena Dommage qu’elle soit une P…, come se avesse diretto un’orchestra. Perfino vecchi attori sperimentatissimi, come Daniel Sorano, Valentine Tessier o Pierre Asso, hanno dovuto rinunciare alla loro personalità, sono diventati docili strumenti, sospesi al filo della sua bacchetta. Un caso a parte è poi quello dei due interpreti principali, i giovanissimi Alain Delon e Romy Schneider.
La loro recitazione è stata ineccepibile ed ha contribuito, come quella di tutti gli altri, alla perfetta esecuzione dell’opera. Eppure, alla fine dello spettacolo, una volta rotto l’incantesimo che lo aveva dominato fino alla calata del sipario, il pubblico si domandava: «Hanno veramente superato la prova?». A forza di sentirsi ripetere da Luchino: «Voglio che i vostri movimenti diventino automatici», i due giovani attori erano diventati due automi, ed era lecito agli spettatori che li avevano tanto applauditi, domandarsi ora: «Che cosa riusciranno a fare quando non dovranno più ripetere i gesti di Luchino?».
Sono, comunque, osservazioni che non hanno nulla a che fare con lo spettacolo di ieri, il cui successo non poteva essere maggiore. Per la tragedia di John Ford è stata una vera rivelazione, benché Dommage qu’elle soit une P… fosse stata riesumata 12 anni fa da Charles Dullin, che però lo fece in un’edizione purgata, sopprimendo le crudezze del linguaggio, i doppi sensi osceni, e privando così la rappresentazione di quello che è il carattere essenziale del teatro elisabettiano. Luchino Visconti, invece, ha messo in risalto gli aspetti tragici e quelli comici dell’opera, la sua crudeltà e il suo carattere profondamente umano. Ha portato il lavoro di uno scrittore secondario ad un’altezza di espressione che, in certi momenti, faceva pensare a Shakespeare. È riuscito a mantenere la promessa che aveva fatto nel momento di iniziare le prove, quando aveva detto: «Voglio che si senta l’odore della carne, del sangue, dei letti caldi, del vino e del sudore».
Sandro Volta