Per Morte a Venezia, secondo capitolo della «trilogia tedesca» di Luchino Visconti dopo La caduta degli dei, si era già parlato di autoritratto del regista in rapporto alla figura manniana di Aschenbach. Ancor più pertinente risulta un simile discorso di fronte al terzo capitolo della citata trilogia: Ludwig, ritratto in piedi di Luigi II von Wittelsbach, re di Baviera (1845-1886). Fu un sovrano amato e discusso, stretto fra la passione della piccola patria bavarese e l’aspirazione a un grande Reich tedesco, omosessuale con atroci rimorsi di cattolico, alla fine interdetto e suicida; gran scialacquatore, anche, a sentire i cortigiani dell’epoca: ma per aiutare generosamente un personaggio come Richard Wagner, per costruire dei castelli un po’ strampalati che oggi costituiscono una risorsa turistica. Certo Visconti è stato attratto verso questa figura dal suo amore per talune atmosfere del Decadentismo, che Ludwig anticipa da precursore, nonché per il gusto snobistico dei ciaffi e del kitsch. Ma c’è dell’altro, la relazione di Visconti con il suo giovane eroe è molto più profonda. In un certo senso il film si può vedere come un’apologia del dilettantismo ispirato; si sa che Luigi II fu accusato di essere un’anima d’artista senza alcun talento per l’arte; e qualcuno ricorda certo la fatica di Visconti esordiente per farsi accettare come professionista in un ambiente tanto estraneo a quello da cui il nobile milanese proveniva. La caratteristica di Ludwig fu di sfuggire sistematicamente a una catalogazione, la sua stessa pazzia fu soprattutto un’evasione nel fantastico: avrebbe voluto incarnarsi nel Re Sole oppure in un semplice popolano, non riuscì a essere né l’uno né l’altro. E Visconti non ha forse sofferto, nei suoi anni più combattivi, la contraddizione di rifiutare razionalmente i rituali della propria classe e di non riuscire a integrarsi in un movimento politico di massa? È chiaro che non si può trovare a tutti i costi un’equivalenza, Luchino uguale Ludwig; eppure molte affinità saltano agli occhi: nel suo re il regista ammira soprattutto (o quanto meno compatisce, sottolinea) la fuga dalla norma, che è stata la prima regola di vita di Luigi II e la sacra molla del Visconti riformatore teatrale e cinematografico.

Prova ne sia che l’autore, dovendo scegliersi una parte in commedia, avrebbe potuto riconoscersi in Wagner, un artista maturo e in fama di rivoluzionario del teatro del suo tempo. Ma Visconti non ama Wagner: neppure nella svogliata selezione delle musiche (i brani più noti, preludio del Lohengrin, Tristan, Idillio di Sigfrido) ci sono la cura e la conoscenza amorosa dimostrata per Mahler nell’edizione di Morte a Venezia. In Ludwig l’autore della Tetralogia è visto «in pantofole», contro un famoso suggerimento di Eisenstein sul come presentare i personaggi storici: una specie di bidonista felliniano, avido di denaro, piccolo borghese (la scena della festa sotto l’albero di Natale). Un’immagine deteriore, che non rispetta le dimensioni di un gigantesco protagonista della cultura ottocentesca; e si compiace, in maniera un po’ pettegola, di raffigurarlo come uno sfruttatore qualsiasi.

La messa a fuoco di Ludwig riguarda quindi esclusivamente il protagonista, il tema del film è l’elogio della follia: si sente che Visconti solidarizza con il suo «doppio» cinematografico, emancipatosi dalle grandi famiglie, tradito dai beneficati e dai cortigiani, spinto dal destino verso i confini della decadenza fisica. Da parte di un regista anziano è quanto mai tempestiva la proposta di un personaggio anticonformista; ed è un peccato che la realizzazione dell’opera non sia altrettanto provocatoria.

Ludwig è concepito come un carnet di note, confuso sotto il profilo della drammaturgia tradizionale, non abbastanza disordinato alla luce di poetiche più avanzate. La sua estensione copre circa tre ore e non risponde a precise finalità di struttura: il film potrebbe durare mezz’ora di meno o di più senza mutare granché. Sembra concepito a respiri brevi, costruito per agglomerazione: e devono avergli nociuto le speciali circostanze di fretta e di disagio in cui è stato completato. Con una maturazione più serena, in altre condizioni di spirito, l’autore avrebbe forse dato rilievo nel corso del montaggio a un filone interpretativo piuttosto che all’altro: la frustrazione amorosa, la deboscia, il mecenatismo, il velleitarismo politico, la congiura esterna dei potenti e la follia. Così come il film ci viene proposto, i temi si accavallano, il ritratto centrale sfuma e si perde continuamente sotto l’occhio dello spettatore, le figure di contorno non assumono congruo rilievo. La cugina Elisabetta d’Austria (è Romy Schneider che incarna ancora una volta «Sissi») sembra poco più di una civetta isterica e infantile (questo è l’aspetto che propongono, forse le Kinderszenen di Schumann evocate a commentare l’idilio mancato fra i due principi; e sorvoliamo sul breve flash che ci presenta Sissi sotto il velo funerario dopo la pugnalata di Luccheni); i cortigiani sono di una doppiezza senza rilievo, i camerieri-amici oscillano tra l’omertà e il tradimento (il che potrà essere vero storicamente, ma sul piano artistico non giova); Cosima e von Bülow sono abietti complici nella recita wagneriana. Manca del tutto la estrosità che doveva presiedere a certi rapporti di Ludwig con l’esterno: per esempio nella scena penosa con la prostituta (Adriana Asti) o nel grottesco idillio con l’attore. Si potrà trovare il meglio del film nelle sequenze più spettacolari, dall’incoronazione dell’inizio all’apparizione di Ludwig nella finta grotta azzurra al finale battuto dalla pioggia. Ma sul piano inclinato del kitsch si rimpiangono, per esempio, gli scatenamenti di un Ken Russell (pensiamo a L’altra faccia dell’amore, la biografia di Ciaikowski); mentre Finestra con le sbarre (1937), un breve racconto di Klaus Mann, condensa in poche pagine un profilo del povero re di Baviera il cui ricordo non è cancellato dalle immagini svarianti di questo grosso film. Di Helmut Berger è certo plausibile e aggressiva, nella sua accentuazione nevrotica, la resa visiva; la voce appartiene a quel bravissimo attore che è Giancarlo Giannini.

Tullio Kezich
(Sipario)