Aprile 1975

Con Gruppo di famiglia in un interno (titolo per eccellenza colto, come quello di altri suoi film: Vaghe stelle dell’Orsa, per esempio) il « letterato » Visconti arriva finalmente alla poesia. E ci arriva, si badi bene, senza contestare la propria identità di letterato, ma riaffermandola con decisione e con franchezza. Non è un caso che il Professore, chiuso nel silenzio del suo studio, sfogli un libro di Mario Praz. In tutta l’opera di Visconti, del resto, c’è una miriade di indizi che non lasciano adito a dubbi: dai titoli, appunto, alla scenografia, dalla colonna sonora all’origine letteraria illustre della maggioranza dei suoi film, alle predilezioni del regista per Mann e Proust, grandi scrittori ma anche grandi letterati e saggisti. Ma che cos’è veramente un letterato? Diciamo che è un esteta che ha sviluppato al massimo il gusto del bello, che vive di finzioni in un mondo ovattato, separato da una realtà che rifiuta e che viene rifiutata. Diciamo anche che il letterato, per una deficienza di identità, vive di mediazioni che consentono non solo la ripetizione di vicende e situazioni ammirate, ma anche la costruzione di barriere protettive, al riparo da una realtà, interna ed esterna, paurosamente problematica. Nel caso di Visconti, le sue origini aristocratiche giocano un ruolo non secondario nel porre il problema della sua diversità: diversità che ovviamente non è solo di classe, di gusto, di cultura e, diremmo, di rituale aristocratico, ma esistenziale, che fa il paio con l’altra, tipicamente manniana, dell’irregolarità dell’artista, con cui spesso si confonde per affinità elettiva. Così se il personaggio manniano è un borghese fuorviato perché artista, quello di Visconti è fuorviato non solo perché è artista o comunque appartenente alla stessa razza, ma anche perché aristocratico, e aristocratico diverso. Nello stesso personaggio manniano, del resto, proprio perché artista, cioè spiritualmente disponibile, troviamo irruzioni nelle sabbie mobili di quest’altra diversità di cui parliamo, più che altro però intellettualmente presentita: si pensi al giovanetto Kröger, innamorato di Hans, a von Aschenbach, devastato dall’amore per il giovane Tadzio. Tra gli ultimi esponenti di una classe scomparsa, per la quale il gesto, il rituale, il contegno è stato motivo non soltanto formale di vita e che si è vista soppiantare da una borghesia di pescecani volgare e vorace, elefantesca e priva di scrupoli, Luchino Visconti, per sopperire alla scomparsa del ruolo e alla deficienza di realtà della classe cui è rimasto fondamentalmente legato, si rifugia nella finzione di una messa in scena, teatrale e filmica, fastosa, aristocratica, signorile; dove, sia pure nello spazio di un’ora, possano rivivere il gesto, il comportamento, gli oggetti amati e ora negletti dai più: un libro prezioso, un quadro da collezionista, una musica rara. Veramente è ancora tutto da scrivere il capitolo sulle motivazioni reali e recondite della massiccia presenza « antiquaria » nel lavoro di Visconti.

Paradossalmente la stessa ideologia, miticamente recepita, assume, al pari della finzione scenica, lo stesso valore nei riguardi di una realtà che Visconti rifiuta. E rifiuto e utopia, sono i poli estremi, dialetticamente condizionantisi, di una direttrice, lungo la quale si muove il lavoro di un artista che in realtà guarda al passato e che proprio per questo, oltre che per naturale inclinazione, non ama parlare di sé, ma tra sé il personaggio erige robusti diaframmi. Questo pudore, questa discrezione, ci sembra, spiegano anche la particolare struttura narrativa dell’opera di Visconti, tutta chiusa nel proprio itinerario e per tanti versi estranea al cinema contemporaneo. Così come ne spiegano la costante origine letteraria, quasi che il regista avesse voluto nascondersi dietro vicende altrui, fossero quelle degli autori amati e dei suoi stessi personaggi, aiutato in questo da una tecnica stupefacente, che spesso però ha destato solo ammirazione nello spettatore alla fine interdetto: come se il passo verso la molla più segreta dell’ispirazione viscontiana gli fosse sbarrato da un’intelligenza vigile e frenante.

In Gruppo di famiglia in un interno cade finalmente il diaframma che Visconti ha eretto tra sé e il personaggio, sia pure sotto la vigile e consueta presenza di una discrezione pudica ed elegante. Da questo momento la via al cuore di un artista per tanti versi così schivo è aperta. Non ci resta che ripercorrerla, avvertendo, però, che non ci interessa qui ripetere ciò che il film dice in maniera del resto irripetibile, che sarebbe tra l’altro fatica pleonastica e inutile, un solo tentare di capirne qualche intima e segreta motivazione.

C’è nella casa del professore una stanza che si nasconde abilmente agli occhi degli estranei e che al Professore è particolarmente cara perché un tempo è stata della madre e ne ha custodito i segreti. È in questo sacrario di dolci memorie infantili che nel corso degli anni e nei momenti di più accorata solitudine si è perpetuato, senza mai interrompersi, il colloquio tra il figlio e la madre, ferma nel ricordo del suo sorriso dolce e arrendevole. Attraverso i continui flashback a lei dedicati s’indovina un rapporto affettivo estremamente condizionante, ben più condizionante, comunque, dell’altro che ha legato per qualche tempo il professore all’altra donna della sua vita: la moglie, fissata, non a caso, in un solo flashback — nel momento in cui ella, in lacrime, si dichiara sconfitta da una situazione più grande di lei. È in questa stanza, nella stanza del passato e del ricordo, dove viene celebrata non solo la costante presenza della madre ma anche la significativa assenza del padre, è nel suo segreto gelosamente custodito. che viene introdotto Konrad ferito, a ricostituire, sia pure in termini inevitabilmente mutati, un’antica situazione, dolce al ricordo, nella quale ancora una volta si celebra il rito della tenerezza materna china sulla fronte febbricitante del figlio. In questo preciso momento, nel momento in cui sostituisce al ricordo, al flashback, una situazione realmente vissuta, che si prefigura come la meta e l’appagamento del desiderio, il professore vede crollare la torre d’avorio costruita sulla morale del contegno e del gesto e nella quale ha finora preservato da occhi estranei e volgari il segreto della sua solitudine. Se ponesse attenzione nell’ascolto, potrebbe già da ora sentire i passi dell’ignoto inquilino al piano di sopra.

Ancora: se per un momento ponessimo un’equazione tra la morale del contegno e del gesto del Professore, così chiuso. nella sua discreta eleganza e alieno dalla volgare sentimentalità dei drammi altrui, e la costante ricercatezza formale del narrato di Visconti, forse potremmo arrivare a capire perché l’autore, proprio dopo la sua malattia, ci abbia voluto fornire la chiave dell’intera sua opera, in un film che ci auguriamo sia solo momentaneamente conclusivo.

Antonio Castaldi