Maggio 1950

Distinguere la regia in «critica» e «creativa» è certamente arbitrario, ma può servirci per indicare due diversi aspetti di questa funzione. Personalmente creda che colui che «fa» lo spettacolo possa avere una funzione determinante nell’evoluzione teatrale soltanto se la sua opera riunisce, insieme a quella di direttore, quella di attore o di autore. La figura del regista, diremo cosi, «mediatore», come oggi capita di vedere, è una figura ambigua, che finisce fatalmente per sconfinare nell’uno o nell’altro campo. Chi regola uno spettacolo, lo interpreta, cioè, ad essere chiari, lo modifica. Questa modificazione può avvenire, «dall’interno», cioè attraverso l’attore, o «dall’esterno», riscrivendo l’opera. Tutte le figure di registi che hanno contato qualche cosa nella storia dello spettacolo in questi ultimi ottant’anni erano o attori, come Antoine, Stanislavski, Meyerhold, Barrault, Reinhardt, o scrittori, come Copeau, Dancenko, Bertolt Brecht. Alla direzione dello spettacolo (che significa poi la realizzazione delle ambizioni sociali, di cambiamento del mondo; o di spiegazione, del suo autore; parlerei, se non fosse eccessivo in questa sede, di «spettacolo-democrazia» e «spettacolo-dittatura»), non si giunge che facendo leva su due mezzi, su due «poteri»: quello di recitare, cioè di interpretare personalmente, con tutti i mezzi dell’attore, il dramma, oppure quello di riscriverlo: il regista che tende la mano all’autore e all’attore come un giudice di pace, realizza un compromesso, e quando è veramente uno che ha qualche cosa da dire, manda all’aria anche questo compromesso.

L’attore dell’Ottocento ha lasciato in teatro una impronta incancellabile: perché sostituiva la sua popolarità a un’accademia convenzionale, ad interessi ristretti (come fu, salvo qualche eccezione, il teatro dell’ottocento, almeno in Italia); il suo sviluppo è direttamente in rapporto con la tragedia alfieriana, e il suo significato romantico di sviluppo della personalità in senso antisociale, individualistico. Il passaggio da questo tipo di attore all’attore-direttore, cioè a colui che sente la necessità di porre la sua personalità in rapporto a quella di altri, è un segno della necessità che l’uomo sente, in seguito, di crearsi dei legami, di ritornare ad essere libero, non fuori della società ma dentro di essa. (Non dimentichiamo che il regista, nel senso moderno della parola, è nato col naturalismo, e che la sua prima esigenza è stata quella di riportare a teatro «la verità»). Lo spettacolo rifatto da un autore è la fase ultima probabilmente di questo processo, la più avanzata, quella che usa lo spettacolo teatrale come mezzo, non più come fine, che si serve del teatro, dei classici, di ogni mezzo atto a fare spettacolo per l’utilità dei suoi contemporanei.

Tutto ciò soltanto per dimostrare che le accuse che si fanno in genere a un regista di uscire da certi limiti che si sarebbe dovuto imporre, sono prive di senso, e che anzi l’opera sua vale soltanto in rapporto alla forza delle idee che lo conducono a queste modificazioni. Che valore può avere un classico ripetuto per cento anni allo stesso modo? Un valore di tradizione, quella per esempio che rispetta la Comédie Française, e che Jouvet s’è vantato, giustamente, d’aver rotto col suo Tartuffe recentemente. Diciamo la parola che più si adatta a tutto questo: tradizione vuol dire conservazione, vuol dire teatro fatto e rivolto ad una società immutabile, che si presume (o si desidera) tale. Perché un’opera classica o anche moderna, ma straniera per esempio, significhi esattamente quello che storicamente significherebbero le sue condizioni sociali, se trasportate al mondo d’oggi, occorre ristabilire gli elementi sui quali essa s’è formata: e costruirli con materiale contemporaneo, per uso e consumo dei contemporanei. In questo senso il teatro non può essere in crisi: la crisi significa piuttosto che bisogna sostituire le forme nuove alle vecchie e che fintanto che s’useranno quelle lo spettacolo potrà interessare per un numero imprecisato di ragioni, ma non certo essere popolare.

Che valore possiamo dare, secondo tale concetto, all’opera di regista di Luchino Visconti? Un grande valore, penso, malgrado i limiti che fattori esterni possono porgli. Alcuni anni fa, quando Visconti presentò il Delitto e castigo di Dostoievski-Baty, io fui tra coloro che criticarono lo spettacolo: lo scrissi anche e son lieto di riconoscere, oggi, che avevo torto. Fin dai suoi inizi, da quei Parenti terribili che sollevarono tante discussioni, l’opera di Luchino Visconti si impose, nei confronti d’un teatro tecnicamente arretrato, o scolastico, come l’opera d’un violento critico del costume sociale. Fu detto che del dramma di Cocteau Visconti dette un’interpretazione che andava al di là del valore dell’opera. Certo, ma lo spettacolo di Visconti era superiore al dramma di Cocteau, e non tecnicamente soltanto, per questioni d’atmosfera morbosa o altro, che lui aveva esasperata, ma perché portava alle sue conseguenze psicologiche il mondo morale di Cocteau. Visconti indicava nel dramma di quel Carrozzone lo stato d’anarchia morale raggiunto da un certo mondo, lo attualizzava, faceva fare a quella famiglia i dieci o quindici anni di strada che gli erano rimasti dalla sua nascita ad oggi. Direi che questo del proiettare in avanti, di dare al dramma interpretato una spinta che gli fa bruciare tutte le resistenze sotto le quali oggi ancora può camuffarsi, sia la caratteristica principale, ideologicamente almeno, della regìa di Visconti. E si vede bene in Zoo di vetro e nel Tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, nell’Antigone d’Amouilh, in Porta chiusa di Sartre, perfino in Adamo di Achard, o nella Quinta colonna di Hemingway. Le preferenze di Visconti nel repertorio moderno sono chiarissime: credo che non metterebbe mai in scena un sovietico, o un’opera di teatro cattolico, o qualsiasi dramma che non gli consentisse d’individuare uno sviluppo di crisi sul quale lavorare. Tale istinto si muove con altrettanta violenza sui classici: siano Beaumarchais, o Alfieri, o Shakespeare, Visconti deve rifarli completamente e cercargli dei significati moderni evidenti, forti, magari, se è necessario, anche a costo di violentarne l’equilibrio (la Carmagnola delle Nozze di Figaro, per esempio, con le maschere della morte).

Decadente è la parola usata per giudicare Visconti. Può essere, ma decadente non significa di ragione lontano da noi, tutt’altro: potrebbe darsi che solo un decadentismo di questo tipo possa, a teatro, (e nelle condizioni del teatro italiano) spingere a un contatto con la realtà; che è magari un contatto non immediato, realizzato attraverso elementi di gusto, formalistici, ma sempre, di fronte ai giuochi di farfalle dei quali vive la nostra scena, un modo di «forzare il blocco». Il Troilo e Cressida che Visconti ha fatto a Firenze, ha dimostrato, credo, in maniera definitiva, l’importanza della sua opera (in quei limiti di compromesso cui accennavamo in principio); è evidente il suo tentativo per dare allo spettacolo un contenuto, oltre quello di Shakespeare, ma non contro quello di Shakespeare, facendo del dramma una satira violenta dell’eroismo bellicistico. Naturalmente tutto ciò dispiace a molti: soprattutto a tutti quelli che si sono abituati a chiamare Vittorio Emanuele II il Padre della Patria, che parlano di Otello come della «tragedia della gelosia», che insomma ragionano solamente attraverso gli aforismi dei testi ginnasiali. Ma la sostanza dell’opera di Luchino Visconti ha assunto ormai una fisionomia precisa, personale. L’influenza del suo lavoro è avvertibile non solo nel livello assunto da qualche anno a questa parte dai nostri spettacoli, ma nella stessa valutazione del repertorio, nella scelta dei drammi, Si deve a lui in fondo la conoscenza di quanto di meglio, o di più interessante ha dato il teatro di questo dopoguerra, da Sartre a Anouilh, a Hemingway a Caldwell, a Cocteau, a Tennessee Williams, a Miller che darà quest’altra stagione: così come è significativa la scelta dei suoi classici: Beaumarchais, Alfieri, Shakespeare, Dostoievski. Tutte opere che hanno il segno della violenza, in ogni senso, che costituiscono un panorama tutto di punte, senza pause, senza riposi. Questo è in parte il motivo che fa così discusso il suo lavoro: ma non è il solo. È che l’opera sua è così concreta, tangibile. isolabile, quasi, dal dramma su cui si è esercitata, che può essere giudicata come a se, e può quindi piacere o dispiacere come piacerebbe o dispiacerebbe un dramma, un attore, un fattore essenziale cioè dello stesso spettacolo. Per quasi tutti gli altri registi italiani, anche per i buoni o gli eccellenti, si parla in genere di bravura, di finezza, di gusto, d’intelligenza: tutte qualità proprie all’interprete, al mediatore, al conduttore. Per Visconti il discorso è un altro: buono o cattivo è comunque un altro, di creazione, sempre; ha nello spettacolo più valore d’ogni altro elemento: spesso più del testo, sempre più degli attori, più della scena, più dei costumi, s’impone insomma al giudizio. Non fosse che questo il suo merito sarebbe già più che sufficiente a tranquillizzarlo sulla serietà del suo impegno.

Luciano Lucignani