Roma, Febbraio 1952
Dieci anni di lavoro, con la parentesi della guerra e dell’occupazione: quindici spettacoli teatrali e tre film, ecco il bilancio dell’attività di regista di Luchino Visconti.
Oggi neppure la critica più sorda ed ostile gli contesta di essere una delle maggiori personalità dello spettacolo italiano e di aver esercitato l’influenza più profonda sul suo rinnovamento; ma a parte alcune brevi note il reale significato della sua azione, nel teatro e nel cinema italiano di questi ultimi anni, è ancora da studiare e da capire.
Secondo me occorre distinguere tra un’importanza culturale e un’importanza artistica di Visconti. Vediamo innanzi tutto qual’è la sua importanza culturale: Visconti ha debuttato in teatro in un momento particolarmente delicato: subito dopo la liberazione, quando, è vero, il vento degli avvenimenti aveva spezzato molte delle illusioni e delle speranze sulle quali aveva finto d’esistere il teatro italiano sotto il fascismo, ma quando anche la struttura (o quella parvenza di struttura) che bene o male reggeva la vita delle compagnie era pressoché inesistente: teatri abbattuti, formazioni sciolte, difficoltà di raccolta del pubblico, ecc. Fin dalla sua prima esperienza (I parenti terribili di Cocteau) l’azione di Visconti è di condurre il pubblico ad un contatto violento, ad un urto con la materia dello spettacolo: azione che non dimentica mai e che è, senza dubbio, la prima grande qualità del suo istinto. Entrato in un teatro dove il rapporto fra platea e palcoscenico era, ormai, frutto d’una reciproca compiacenza, e nel quale l’interesse, quando era reperibile, finiva per nascondersi nelle sfumature d’una recitazione, nei divertimenti, infantili a volte, della messinscena e dell’illuminazione e il pubblico aveva evidentemente rinunciato ad ogni possibilità di sorpresa, egli ha immediatamente rotto questa rete di complicità di piccoli rapporti sostituendovi francamente, clamorosamente, insolentemente addirittura, lo scandalo.
Era ovvio che la prima reazione partisse dai puritani che esistono sempre e sono sempre pronti a scagliare l’anatema su colui che minaccia di rompere un equilibrio di mediocrità, di rimettere tutto in discussione. Sono venute accuse d’ogni genere a Visconti: formalismo, decadentismo, immoralità. Poi hanno aspettato che si avvicinasse ai classici; qui avevano una buona carta da giocare e non l’hanno sprecata. Il « tradimento » e « l’infedeltà » alle opere del passato, ai capolavori, ecco un buon motivo per condannare al rogo; così Visconti era anche un eretico. In ultimo è stato attaccato il suo modo di fare il teatro, si è gridato allo scandalo per il costo dei suoi spettacoli, per il largo spazio che in essi si faceva alle musiche, al balletto, alla decorazione. Si è affermato che un’organizzazione teatrale come quella italiana (compagnie di giro, piccoli teatri stabili, impossibilità, spesso, di ricoprire le spese, pubblico scarso, ecc.), Visconti faceva un teatro inflazionistico, un teatro che avrebbe presto condotto al fallimento, e che nel migliore dei casi bisognava considerarlo un’eccezione; la regola sarebbe rimasta quella che era: compagnia con due o tre attori importanti, parapettate per le scene, un paio di pochades più o meno spinte in repertorio, molti abiti da sera, molta claque, e via dicendo.
Quante delle accuse fatte a questo regista, veramente rivoluzionario, in questo senso, erano giustificate? Nessuna, assolutamente. Cominciamo dall’ultima, quella sul carattere straordinario delle sue regie. È vero o non è vero che oggi, dopo aver visto Rosalinda o Il tram che si chiama desiderio, Oreste o Morte d’un commesso viaggiatore, Euridice o Troilo e Cressida non abbiamo più coraggio di entusiasmarci per le misere, squallide messinscene delle compagnie di giro, anche se affidate all’autorità di qualche nostro illustre interprete? È vero o non è vero che gli autori italiani, una volta contenti d’essere rappresentati come capitava e preoccupati soltanto di scrivere commedie con una sola scena, oggi possono permettersi il lusso (necessario, naturalmente) di uno spettacolo accurato che non tradisca le loro intenzioni e renda il significato dell’opera, senza perciò dover rinunciare all’ambizione di essere recitati da attori eccellenti e con la libertà di non dover limitare la loro ispirazione ad una sola scena e quattro personaggi? È vero o non è vero che i maggiori spettacoli italiani, saliti in questi ultimi anni al livello dei migliori d’Europa, e in certi casi francamente superiori (il Troilo e Cressida messo in scena da Visconti a Boboli fu definito da Arthur Miller « forse il più grande spettacolo del mondo » e in quell’occasione, appunto, lo scrittore americano chiese a Visconti di dirigere il suo dramma Morte d’un commesso viaggiatore) hanno avuto esito economicamente più favorevole di quelli eseguiti con un maggiore risparmio? Bisogna riconoscere a Visconti il suo vero grande merito: che è quello di aver reso moderno lo spettacolo italiano, di aver adoperato mezzi più nuovi, più aderenti alla composizione della società in cui era chiamato ad operare. Con lo sviluppo del cinematografo, con la possibilità che questa arte ha di mostrare mondi nuovi, avventure meravigliose, di spaziare in tutti i regni della fantasia, di rappresentare concretamente la realtà, che cosa significa più un teatro legato, incatenato alla sua convenzione, ad una povertà umile e ipocrita che comunque, anche nei casi migliori, (Copeau, per esempio, è una delle antitesi più evidenti di Visconti) contribuisce ovviamente a renderlo un fatto sempre più privato, personale, per una élite aristocratica che o non esiste o non ha i mezzi sufficienti a sostenerlo?
Visconti ha fatto fare al teatro italiano un progresso che è difficile ora valutare obiettivamente, ma del quale si dovranno interessare i futuri storici del teatro. Naturalmente, le posizioni dalle quali si è mosso gli hanno impedito finora d’arrivare allo spettacolo popolare (ma in qualche modo già Troilo e Cressida segnava un avviamento in questo senso) e del resto non basta fare degli spettacoli popolari nella forma e magari nel contenuto, occorre metterli a disposizione d’un altro pubblico, in altri luoghi che non siano i teatri frequentati dal pubblico borghese; ma anche con questo limite l’azione di Visconti ha avuto modo di svolgersi ampiamente. Nell’ambito del pubblico borghese egli oggi produce un teatro che è per i mezzi, per i contenuti, per il livello artistico a cui si eleva, veramente rivoluzionario.
(fine della prima parte)
Un pensiero riguardo “Luchino Visconti regista principe del teatro italiano”
I commenti sono chiusi.